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Direzione scientifica di M. Alessandra Sandulli e Andrea Scuderi
11/05/2015
GIUSTIZIA / Provvedimenti del giudice

Il giudice scrive di pugno la sentenza in modo poco leggibile: la sentenza è nulla?

E' valida la sentenza che il giudice ha scritto di suo pugno anche se la sua grafia non è facilmente leggibile ove il testo sia comunque idoneo ad assolvere la sua funzione essenziale consistente nell'esternalizzazione del contenuto della decisione.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza che segue.
Solo nell’ipotesi in cui il testo della sentenza risulti del tutto inintellegibile, la decisione è nulla e il giudizio va rifatto.
In altri termini, deve trattarsi non di mera difficoltà nella lettura ma di assoluta inintellegibilità.
Nel caso di specie, pur essendo la grafia del magistrato di non facile lettura ad avviso della Corte era ben possibile superare l'iniziale difficoltà ragion per cui, risultando il testo comprensibile, la sentenza doveva ritenersi pienamente valida.
In relazione poi alle irregolarità formali della sentenza, la Terza Sezione Civile della Corte ha avuto cura di rammentare che non è configurabile alcuna nullità della sentenza nel caso in cui il testo originale, anziché formato dal cancelliere, in caratteri chiari e facilmente leggibili, mediante copiatura dalla minuta redatta dal giudice, risulti pubblicato direttamente nell'originale minuta scritta di pugno del giudice, ancorché con grafia non facilmente leggibile: l'inosservanza delle disposizioni concernenti la formazione, ad opera del cancelliere, del testo originale della sentenza e la redazione della minuta in caratteri chiari e facilmente leggibili danno infatti luogo a semplici irregolarità.

Adriana Costanzo
ALLEGATO 1 Cassazione Civile - Sentenza 27 Aprile 2015, n. 8481
> Giudizio civile - Sentenza - Sentenza scritta di pugno dal giudice - Grafia del magistrato non facilmente leggibile - Nullità - Solo se il testo è assolutamente incomprensibile
> E' valida la sentenza che il giudice ha scritto di suo pugno anche se la sua grafia non è facilmente leggibile ove il testo sia comunque idoneo ad assolvere la sua funzione essenziale consistente nell'esternalizzazione del contenuto della decisione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Libertino Alberto Russo - Presidente
Dott. Giacomo Travaglino - Consigliere
Dott. Raffaele Frasca - Rel. Consigliere
Dott. Raffaella Lanzillo - Consigliere -
Dott. Paolo D'Amico - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA N. 8481/2015
sul ricorso 542-2008 proposto da: M. F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GRAMSCI 7, presso lo studio dell'avvocato RUBINO ROSSELLA, rappresentato e difeso dagli avvocati VINCENZO D'ERRICO, DELLI PAOLI DOMENICO giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
COMUNE CASERTA, in persona del Sindaco pro tempore ing. N. P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FABIO MASSIMO 60, presso lo studio dell'avvocato ENRICO CAROLI, che lo rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3338/2006 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 08/11/2006 R.G.N. 1177/2002;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2015 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l'Avvocato VINCENZO D'ERRICO;
udito l'Avvocato ENRICO CAROLI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RENATO FINOCCHI GHERSI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
§1. M. F. ha proposto ricorso per cassazione contro il Comune di Caserta avverso la sentenza dell'8 novembre 2006, con la quale la Corte d'Appello di Napoli ha respinto, con compensazione delle spese, il suo appello avverso la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione Distaccata di Caserta, il 6 febbraio 2001, la quale aveva rigettato, sempre con compensazione delle spese, la domanda, da lui proposta nell'ottobre del 1997, per ottenere dal Comune il risarcimento dei danni a suo dire sofferti a seguito delle lesioni personali subite a causa di una caduta, avvenuta - a suo dire - il 20 maggio 1979 all'angolo tra la via X e la via Y in Caserta e cagionata dalla presenza sul manto stradale di una buca sul manto stradale.
§2. Al ricorso ha resistito con controricorso il Comune di Caserta.
§3. All'odierna udienza sono comparsi i difensori delle parti, che hanno discusso il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1. In via preliminare deve rilevarsi la tardività del controricorso, in quanto notificato oltre il termine di cui all'art. 370 c.p.c. Infatti, essendo stato il ricorso notificato al Comune il 21 dicembre 2007, il termine per notificare il controricorso veniva a scadere il 30 gennaio 2008, mentre la notifica, effettuata ai sensi della 1. n. 53 del 1994, risulta perfezionata dal punto di vista del notificante, il 23 maggio 2008.
Peraltro, il difensore del resistente ha conservato legittimazione a partecipare alla discussione.
§2. Con il primo motivo di ricorso si deduce "nullità assoluta della sentenza per violazione degli artt. 132 c.p.c., 118 e 119 disp. att. c.p.c. in relazione all'articolo 360, numero 4 c.p.c.".
Vi si sostiene che il vizio si configurerebbe perché la sentenza "è stata stilata in firma autografa dall'estensore con una calligrafia assolutamente illeggibile ragion per cui non è dato comprendere la motivazione in base alla quale la Corte territoriale è pervenuta al rigetto dell'impugnazione". Nella specie si sollecita il Collegio investito della decisione a rilevare che "non si tratta di mera difficoltà nella lettura ma di assoluta inintellegibilità".
§2.1. Il motivo è sorretto da quesito ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c. - come imponeva la disciplina applicabile - ma non è fondato.
Non lo è sulla base del principio di diritto consolidato secondo cui "In mancanza di un'espressa comminatoria, non è configurabile alcuna nullità della sentenza nel caso in cui il testo originale, anziché formato dal cancelliere, in caratteri chiari e facilmente leggibili, mediante copiatura dalla minuta redatta dal giudice, risulti pubblicato direttamente nell'originale minuta scritta di pugno del giudice, ancorché con grafia non facilmente leggibile: l'inosservanza delle disposizioni concernenti la formazione, ad opera del cancelliere, del testo originale della sentenza e la redazione della minuta in caratteri chiari e facilmente leggibili danno infatti luogo a semplici irregolarità, a meno che il testo autografo del giudice non sia assolutamente inidoneo ad assolvere la sua funzione essenziale, consistente nell'esteriorizzazione del contenuto della decisione." (Cass. n. 21231 del 2006; n. 7269 del 2012).
Nel caso di specie si rileva che effettivamente la sentenza impugnata risulta, anche per l'indicazione dei componenti il Collegio decidente e l'indicazione delle parti, vergata di pugno del relatore, ma, se è vero che la grafia risulta di non facile lettura quando il testo si affronti per la prima volta, tuttavia, l'iniziale difficoltà, anche a seguito della naturale affinazione della percezione visiva del carattere i chi rilegge, risulta poi possibile e ciò nella integralità del testo.
Ne segue che risulta raggiunto lo scopo della esternazione della motivazione della decisione, in quanto comporta la realizzazione dell'effetto della sua percepibilità, onde permettere alla parte di esercitare il diritto di impugnazione ed al giudice ad quem il relativo sindacato.
Ne deriva che la mancata redazione da parte del cancelliere dell'originale mediante scrittura autografa propria oppure mediante scritturazione da parte di dattilografo di ruolo, tuttora prescritta dal primo comma dell'art. 118, disp. att. c.p.c., pur integrando l'inosservanza della forma prescritta, non essendo la prescrizione formale comminata espressamente a pena di nullità, una volta valutata ai sensi del terzo comma dell'art. 156 c.p.c., non risulta aver determinato nullità alcuna, tenuto conto che la trasformazione della minuta in originale, cui gli adempimenti del cancelliere di cui al detto primo comma sono funzionali, appare assicurata dall'attestazione del deposito.
Si deve, poi, raggiungere che la prospettazione circa l'illeggibilità è smentita anche, lo si osserva superfluamente, dalla circostanza che il ricorrente ha potuto svolgere altri tre motivi criticando - e dunque avendola percepita - la motivazione della decisione impugnata.
§3. Con il secondo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 2051 del codice civile in relazione all'art. 360 numero 3 - Omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione in relazione all'art. 360, numero 5 c.p.c.".
Il motivo è inammissibile gradatamente per inosservanza dell'art. 366-bis c.p.c. e dell'art. 366 n. 6 c.p.c.
Queste le ragioni.
§3.1. Sotto il primo aspetto si rileva che l'illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti due quesiti di diritto:
"La responsabilità ex art. 2051 codice civile per danni da cose in custodia, anche nell'ipotesi di beni demaniali in custodia della pubblica amministrazione, ha carattere oggettivo ragion per cui si configura in concreto tutte le volte in cui sussiste nesso causale tra la cosa in custodia del danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza".
"La responsabilità per danni da cose in custodia è esclusa solo dal caso fortuito che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata), ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'oggettiva imprevedibilità e l'inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiato. ".
§3.1.1. I due quesiti così formulati sono inidonei allo scopo di adempiere al requisito dell'art. 366-bis c.p.c., norma abrogata dall'art. 47 della 1. n. 69 del 2009, ma, non solo con conservazione della sua ultrattività per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 data di entrata in vigore della legge, contro provvedimenti pubblicati anteriormente, bensì anche senza efficacia retroattiva e, dunque, con effetto per i ricorsi già proposti vigente la norma e non ancora decisi.
L'inidoneità, che si risolve in nullità della formulazione e, dunque, la rende incapace di assolvere al requisito prescritto a pena di inammissibilità, emerge per l'assoluta astrattezza dei due quesiti, che emerge perché essi risultano privi di riferimenti pur sommari e minimali sia alla vicenda che li dovrebbe giustificare siccome giudicata nel giudizio di merito sia alla motivazione della sentenza impugnata, di modo che risultano prospettare meri interrogativi sull'astratta interpretazione della norma dell'art. 2051 c.c. e la risposta ad essi siccome si potrebbe leggere in un'opera esegetica sulla norma stessa.
Con la conseguenza che difetta palesemente il carattere della loro conclusività, previsto dalla norma dell'art. 366-bis c.p.c..
Tale requisito era necessario perché un quesito di diritto, secondo i principi generali delle nullità degli atti processuali, fosse idoneo allo scopo previsto dal legislatore, cioè di far percepire alla Corte di cassazione il problema giuridico posto dal motivo non già come astratta quaestio iuris, bensì come qua estio iuris relativa al caso concreto. Poiché il caso concreto che perviene alla Corte di cassazione è necessariamente individuato dalle coordinate che si muovono tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la motivazione della decisione impugnata, è palese che il quesito doveva essere articolato evidenziando dette coordinate.
§3.1.2. L'art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l'illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva (come si risolve) in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell'impugnazione e che appunto dev'essere criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l'illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato ancorché succintamente - perché l'interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008).
D'altro canto, se si fosse avallata l'idea che un quesito potesse non essere articolato in modo conclusivo nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata che al ricorrente in cassazione sarebbe bastato per ottemperare al requisito dell'art. 366-bis prospettare alla fine dell'illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito, salvo poi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell'illustrazione che se il quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione dell'art. 366-bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della previsione del quesito, che era rappresentato dall'assicurazione alla Corte di cassazione di un'immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica dei nn. 1, 2, 3, e 4 dell'art. 360 c.p.c..
E' da avvertire che l'utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito fosse idonea all'assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell'art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all'assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Esigenza, del resto, che non s concretava in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto forma dai caratteri indefiniti e, quindi, in una incidenza sull'effettività del mezzo di impugnazione costituito dal ricorso alla Corte (anche nei termini del c.d principio di effettività, di cui all'art. 6 della CEDU, che in no diversa guisa è amminicolo del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 e specificato dall'art. 111 Cost.), atteso che all'effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui necessita il ricorrente in Cassazione non poteva essere d'ostacolo l'onere di formulare quesiti asseritamente conclusivi nei detti sensi.
§3.1.3. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al terzo comma dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all'atto: il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l'inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell'atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l'illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c.).
§3.1.4. E', altresì, da avvertire, che l'intervenuta abrogazione dell'art. 366- bis c.p.c. non può determinare - in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi - l'adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite.
L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell'art. 12, primo comma, delle preleggi, posto che si tratterebbe di criterio contrario all'intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all'abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l'efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l'esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorché, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l'abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall'esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l'adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell'abrogazione impone di considerare che l'esclusione dell'abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell'esegesi affermatasi, perché il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela.
§3.1.5. Si deve, poi, aggiungere che, prospettando il motivo anche vizio ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., sebbene neppure indicando il fatto controverso cui alludeva il testo della norma applicabile al ricorso, riguardo ad esso l'illustrazione doveva concludersi con o doveva contenere il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione" cui alludeva l'art. 366-bis c.p.c., nei termini precisati dalla giurisprudenza della Corte a partire da Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e Cass. sez. un. n. 20603 del 2007.
Viceversa tale momento di sintesi manca del tutto.
§3.2. L'inosservanza dell'art. 366 n. 6 si coglie invece, perché il motivo si fonda su due documenti, una nota di provenienza del segretario del Comune e altra certificazione rilasciata da funzionario del settore urbanistico di esso, ma, nella sua illustrazione, pur riproducendosi il loro contenuto, si omette di completare l'indicazione specifica richiesta da detta norma nei termini richiesti da consolidata giurisprudenza (ex multis, Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e 7161 del 2010, riassuntivamente Cass. n. 7455 del 2013), cioè precisando dove e come era avvenuta l'introduzione nel giudizio di merito dei due documenti e soprattutto, se e dove essi sarebbero - in quanto prodotti ai diversi effetti del n. 4 del secondo comma dell'art. 369 c.p.c. - esaminabili in questo giudizio di legittimità.
§4. Con il terzo motivo si deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 14 Decreto Legislativo N. 285 del 30/4/1992, dell'art. 16, lett. b, legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. F e dell'art. 5 r. d. 15 novembre 1923, n. 2056 in relazione all'art. 360 numero 3. - Omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione in relazione all'art. 360, numero 5 c.p.c.". Il motivo è concluso dal seguente quesito di diritto: "Dalla proprietà pubblica del Comune sulle strade all'interno dell'abitato (art. 16, b, legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. F) discende per l'ente non solo l'obbligo della manutenzione (come stabilito dall'art 5 r. d. 15 novembre 1923, n. 2056 e dell'art. 14 Decreto Legislativo N. 285 del 30/4/1992) ma anche quello di custodia, con conseguente operatività, nei confronti dell'ente stesso, della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 codice civile.".
Anche tale quesito, alla stregua dei principi già sopra richiamati, è del tutto astratto e privo di conclusività e, pertanto, affetto da nullità di formulazione. Riguardo alla censura ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. il motivo difetta di momento di sintesi.
Il motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile.
§5. Con il quarto motivo (indicato erroneamente con il numero 2) si deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 del codice civile in relazione all'articolo 160 numero 3 - Omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione per la zona alla 360, numero 5 c.p.c.".
L'illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: "L'ente proprietario della strada aperta al pubblico transito è tenuto a far sì che essa non presenti per l'utente situazioni di pericolo occulto (c.d. insidia o trabocchetto) ragion per cui è responsabile, in virtù del principio del neminem laedere ex art. 2043 codice civile, dei danni subiti dall'utente a causa di una buca non visibile e non prevedibile.".
E' palese l'assoluta astrattezza anche di tale quesito, sempre secondo i ricordati principi.
Inoltre, quanto alla censura ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. difetta di momento di sintesi.
Si aggiunga che l'illustrazione si fonda sulle dichiarazioni testimoniali che vengono riprodotte, con indicazione dell'udienza di assunzione, ma senza che si precisi se in questa sede sono stati prodotti in copia i verbali oppure se sia inteso fare riferimento (Cass. sez. un. n. 22726 del 2011) alla loro presenza nel fascicolo d'ufficio delle fasi di merito ed in quale: risulta pertanto violato anche l'art. 366 n. 6 c.p.c..
Il motivo è dichiarato inammissibile.
§6. Il ricorso è, dunque, conclusivamente rigettato.
§7. L'inammissibilità del controricorso ed il carattere non pretestuoso del primo motivo, in ragione della già rilevata difficile (sebbene non impossibile) leggibilità della sentenza, inducono a compensare le spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 27 gennaio 2015.
 
IL PRESIDENTE
Libertino Alberto Russo
IL CONSIGLIERE EST.
Raffaele Frasca
 
Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2015
 


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