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Direzione scientifica di M. Alessandra Sandulli - Andrea Scuderi - Pino Zingale
Direzione editoriale di Massimiliano Mangano - Chiara Campanelli 
Norma - quotidiano d'informazione giuridica - DBI s.r.l.
Direzione scientifica di M. Alessandra Sandulli e Andrea Scuderi
18/03/2015
LAVORO E WELFARE / Pubblico impiego

Mobbing: l'onere probatorio grava tutto sul lavoratore?

Davanti al Giudice il lavoratore non può limitarsi a sostenere genericamente di essere vittima di un illecito, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale sia possibile verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione sul luogo di lavoro.

Chiamati a pronunciarsi in materia di pubblico impiego, con la sentenza in commento, i Giudici di Palazzo Spada hanno avuto modo di ritornare, ancora una volta, sul delicatissimo e sempre caldo tema del danno da mobbing e, più in generale, della responsabilità datoriale scaturente dall'art. 2087 del Codice Civile. Secondo il Supremo Collegio, in ossequio ai consolidati principi formatisi anche nella giurisprudenza amministrativa in subiecta materia, per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Ebbene, il lavoratore che lamenti l'esistenza di condotte mobbizzanti non può, dunque, limitarsi a sostenere genericamente davanti al giudice di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve, quanto meno, evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione. Peraltro, osserva ancora il Collegio, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo. Tale impostazione è accoglibile anche laddove le violazioni riscontrate non siano connotate da una gravità tale da potere individuare una vera e propria condotta mobbizzante. Ed invero, in tutte le ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è comunque tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati (esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale), pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili ai sensi dell'art. 2087 c.c.; peraltro, è stato acutamente chiarito come tale disposizione non configuri un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe comunque sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Giovanni Longo
ALLEGATO 1 Consiglio di Stato - Sentenza 12 Marzo 2015, n. 1282
> Pubblico impiego - Mobbing - Nozione - Elementi costitutivi
> In tema di pubblico impiego, per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l'ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (1).
(1) Cfr., Cons. Stato, sez. III, 1-8-2014 n. 4105; Cons. Stato, sez. IV, 6-8-2013 n. 4135; Cons. Stato, sez. VI, 12-3-2012 n. 1388.
> Pubblico impiego - Mobbing - Onere della prova - Contenuto - Onere per il lavoratore di impugnare tempestivamente i provvedimenti organizzativi illegittimi
> In tema di pubblico impiego, deve ritenersi che il lavoratore che lamenti l'esistenza di condotte mobbizzanti non possa limitarsi a sostenere genericamente davanti al giudice di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma debba quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (2). Peraltro, la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (3).
(2) In tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 6-8-2013 n. 4135; Cons. Stato, sez. VI, 12-3-2012 n. 1388.
(3) Così, Cons. Stato, sez. VI, 4-11-2014 n. 5419; Cons. Stato, sez. V, 27-5-2008 n. 2515.
> Pubblico impiego - Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087, Cod. Civ. - Onere della prova gravante sul lavoratore - Contenuto
> In tema di pubblico impiego, deve ritenersi che, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", sia tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati (esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale), pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili ai sensi dell'art. 2087, Cod. Civ. (4); peraltro, tale disposizione non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe comunque al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
(4) Sul punto, Cass. Civ. 18-9-2013 n. 21344.
N. 1282/2015 Reg. Prov. Coll.
N. 6028 Reg. Ric.
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6028 del 2014, proposto da:
X, rappresentato e difeso dagli avvocati Manuela Ghillino e Costanza Acciai, con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Costanza Acciai in Roma, Via Nicola Ricciotti, 11;
contro
Banca, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per legge dagli avvocati Piera Coppotelli e Adriana Pavesi, domiciliata in Roma, Via Nazionale, 91;
per la riforma
della sentenza 13 maggio 2014, n. 4978 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio di Banca;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
visto l'art. 22 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, comma 8;
relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 dicembre 2014 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Grillino e Coppotelli.
FATTO E DIRITTO
1.- Il signor X ha adito il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, chiedendo il risarcimento dei danni subiti per cosiddetto mobbing, assumendo che sarebbero conseguenza di una persistente condizione di disagio che il ricorrente si sarebbe trovato a sopportare nel proprio ambiente di lavoro a causa dei comportamenti pregiudizialmente ostili tenuti nei suoi confronti dai responsabili della sede provinciale di Aosta, nonché per effetto delle numerose turbative della vita professionale subite soprattutto negli ultimi anni di servizio.
2.- Il Tribunale amministrativo, con sentenza 13 maggio 2014, n. 4978, ha ritenuto non fondato il ricorso.
3.- Il ricorrente in primo grado ha proposto appello.
3.1.- Si è costituita in giudizio l'amministrazione intimata chiedendo il rigetto dell'appello.
4.- La causa è stata decisa all'esito dell'udienza pubblica del 2 dicembre 2014.
5.- L'esame dell'appello, composto, in patente contrasto al principio di sinteticità (art. 3, comma 2, Cod. proc. amm.) da ben settantadue pagine, impone di riportare: i) gli orientamenti rilevanti della giurisprudenza amministrativa e civile; ii) l'insieme dei motivi prospettati dall'appellante; iii) l'esame contestuale dei motivi stessi.
6.- Le fattispecie che vengono in rilievo solo il cosiddetto danno da mobbing e la responsabilità datoriale ex art. 2087 Cod. civ..
6.1.- La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nell'affermare che «per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l'ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio» (Cons. Stato, III, 1 agosto 2014, n. 4105; IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388).
Sotto il profilo oggettivo è stato puntualizzato che nel lavoro pubblico, per configurarsi «una condotta di mobbing sia necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti» (Cons. Stato, IV, 19 marzo 2013, n. 1609; VI, 15 giugno 2011, n. 3648).
Sotto il profilo soggettivo è stato chiarito che la «sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing» (Cons. Stato, IV, n. 4105 del 2014; 16 febbraio 2012, n. 815).
Sotto il profilo probatorio si è chiarito che il lavoratore «non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione» (Cons. Stato, IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388). La giurisprudenza ha aggiunto che «la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo» (Cons. Stato, VI, 4 novembre 2014, n. 5419; V, 27 maggio 2008, n. 2515).
6.2.- L'art. 2087 Cod. civ. prevede che «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Questa previsione può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing.
La Corte di Cassazione ha affermato che «nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale -pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili» (Cass., 18 settembre 2013, n. 21344, richiamata dalla appellante, pag. 16).
La stessa Corte ha aggiunto che «l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi». La stessa giurisprudenza ha anche affermato che «né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici» (Cass., 29 gennaio 2013, n. 2038).
7.- L'appellante afferma che, nella specie, l'amministrazione ha posto in essere una condotta che integra gli estremi del mobbing e comunque del fatto illecito previsto dal citato art. 2087 Cod. civ..
7.1.- Con un primo ordine di motivi si assume che l'esistenza del fatto di mobbing, si desumerebbe, contrariamente da quanto affermato dal primo giudice, dai seguenti elementi:
- il sig.X, nonostante rivestisse la qualifica di Assistente di Cassa, è stato assegnato dal 1983 all'anno 2003 all'attività di «contazione dei biglietti» che costituisce una mansione corrispondente al grado di Vice - assistente;
- il sig.X, a far data dal 1988, ha iniziato a soffrire di «XX»;
- il suddetto demansionamento non sarebbe, pertanto, giustificabile in ragione della patologia psichica del sig.X, in quanto anche l'attività di contazione era stata "sconsigliata" dallo psichiatra che lo aveva in cura e dallo stesso medico incaricato dalla Banca di valutarne l'idoneità lavorativa;
- il sig.X avrebbe dovuto essere, come dallo stesso più volte richiesto dall'amministrazione, adibito a mansioni di carattere amministrativo;
- nel 1995 venne «sistemato in una posizione dietro una paratoia», dove rimase per diversi anni, con un chiaro intento vessatorio;
- il nesso di causalità tra l'attività lavorativa e il danno biologico (comprensivo del danno subito a seguito di infarto) risulterebbe dimostrato dalla documentazione medica depositata in giudizio.
L'appellante ha chiesto, infine, che venisse disposta un consulenza tecnica d'ufficio per accertare l'entità dei danni.
7.2.- Con un secondo ordine di motivi si assume che, in ogni caso, risulterebbe la responsabilità contrattuale della Banca, ai sensi dell'art. 2087 Cod. civ., con onere del datore di lavoro di dimostrare di avere posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente.
8.- L'analisi dei fatti posti a base dei motivi di appello alla luce degli esposti orientamenti della giurisprudenza ne dimostra l'infondatezza.
8.1.- In relazione alla dedotta fattispecie di mobbing, non è stato dimostrato, sul piano oggettivo, che la Banca abbia tenuto comportamenti ostili reiterati e sistematici volti, nell'ambito di un complessivo disegno, a vessare il lavoratore.
Deve anzitutto rilevarsi che già in data 2 dicembre 1977, a solo poco più di un anno dall'assunzione, il dott. E. C. ha certificato che l'appellante fosse affetto da «X».
L'amministrazione, accertata la sussistenza di tale patologia psichica:
- con atto del 6 febbraio 1989, prot. 287592, ha spostato il lavoratore dalle mansioni di sportello, in relazione alle quali era stata accertata l'incompatibilità, a quelle di "contazione" che non comportavano contatto con il pubblico, per la durata di anno;
- con attI del 10 maggio 1990 e 25 marzo 1990 la Banca ha confermato la necessità che l'appellante venisse esonerato dall'attività di sportello;
- con atto dell'1 marzo 1995 la Direzione di Aosta invitava l'appellante a sottoporsi ad accertamenti specialistici presso l'Università La Sapienza e, in quella sede, il Prof. M. rilevava che l'appellante era «affetto da una Xla cui principale manifestazione è l'impulso irresistibile a contare i più svariati oggetti entro limiti precisi di tempo» e che, pertanto, «sono sempre presenti le condizioni che vincolano la sua attività bancaria a mansioni che escludono la sua presenza allo sportello ove la presenza del pubblico si scontrerebbe con i tempi rigidi che ritmano la sua attività».
Questa attività - lungi dall'essere inserita in un quadro complessivo persecutorio - era finalizzata, come correttamente messo in rilievo dal primo giudice, a tutelare il lavoratore.
La dedotta circostanza secondo cui neanche la "contazione" del denaro fosse compatibile con la patologia non può costituire un elemento dimostrativo della fattispecie di mobbing, in quanto il passaggio a mansioni amministrative avrebbe imposto, alla luce anche di quanto stabilito dal regolamento del personale della Banca, lo svolgimento di una prova concorsuale. Non è un caso che quando nel gennaio del 2003 è stato abolito il ruolo di cassa l'appellante è stato adibito a compiti amministrativi semplici presso l'Ufficio di segreteria della filiale di Aosta.
Per quanto attiene alla "postazione di lavoro", lontana da contatti con il pubblico, non sussistono elementi per ritenere che fosse finalizzata a isolare l'appellante.
Va tenuto conto, inoltre, che le diverse determinazioni del datore di lavoro di diniego di trasferimento nonché di valutazione negativa della sua attività lavorativa non sono stati oggetto di impugnazione giudiziale.
Sul piano soggettivo non è stato neanche dimostrato l'intento persecutorio da parte del datore di lavoro pubblico.
8.2.- In relazione all'asserita violazione dell'art. 2087 Cod. civ., alla luce della giurisprudenza riportata al punto 6.2., era onere dell'appellante dimostrare che la violazione delle regole poste dalla predetta norma ha cagionato i danni lamentati. Questa prova non è stata fornita. In ogni caso, non risulta violata alcuna specifica disposizione da parte del datore di lavoro e non risulta, alla luce di quanto esposto al precedente punto, che la Banca abbia posto in essere comportamenti che possano qualificarsi «vessatori e mortificanti».
9.- Nell'ultima parte dell'appello si svolgono argomentazioni difensive volte a dimostrare che l'attività lavorativa avrebbe causato all'appellante una serie di patologie, compreso un infarto. Ma si tratta di questioni che, essendo relative alla possibile dipendenza delle patologie lamentate da causa di servizio con conseguente obbligo risarcitorio del datore di latore pubblico, esulano da questo giudizio.
Le relative pretese possono, pertanto, eventualmente fatte valere, ricorrendone le condizioni, nei modi previsti dalla legge.
10.- La natura della controversia giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta,definitivamente pronunciando:
a) rigetta l'appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe;
b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque citate nel provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
 
IL PRESIDENTE
Giuseppe Severini
L'ESTENSORE
Vincenzo Lopilato
IL CONSIGLIERE
Maurizio Meschino
IL CONSIGLIERE
Roberta Vigotti
IL CONSIGLIERE
Carlo Mosca
 
Depositata in Segreteria il 12 marzo 2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 


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