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Direzione scientifica di M. Alessandra Sandulli e Andrea Scuderi
09/06/2017
FAMIGLIA / Filiazione

Lezioni private "hot" e nascita di figlio indesiderato

L'interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194/1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396/2000, non può essere assimilato all'interesse dell'uomo che, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione giudiziale di paternità.

Tra l'insegnate privata di matematica e un allievo scoppia una irrefrenabile passione, a seguito della quale nasce un figlio.
Quest'ultimo propone azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, nel coso della quale il convenuto, tra l'altro, chiede la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sostenendo che l'art. 269 c.c. violi l'art. 3 Cost. per l'irragionevole disparità di trattamento tra uomo e donna, dal momento che, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della L. n. 194/1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi dell'art. 30 del D.P.R. n. 396/2000 l'uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all'azione di cui all'art. 269 c.c..
Con la sentenza oggi in rassegna, la Suprema Corte ha ritenuto di dover disattendere l'eccezione per manifesta infondatezza, peraltro in continuità con quanto espresso sul punto dalle precedenti pronunce n. 12350 del 18 novembre 1992 e n. 3793 del 15 marzo 2002.
Le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., secondo la Suprema Corte, non sono paragonabili, perchè l'interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194/1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396/2000, non può essere assimilato all'interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.

Massimo Fricano
ALLEGATO 1 Cassazione Civile - Sentenza 01 Giugno 2017, n. 13880
> Famiglia - Filiazione - Dichiarazione giudiziale di paternità - Disparità di trattamento tra padre e madre - Non sussiste
Cod. Civ. , art. 269
> Non va accolta l'istanza di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per illegittimità dell'art. 269 c.c., per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali, potendo la donna scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della L. n. 194/1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi dell'art. 30 del D.P.R. n. 396/2000 mentre l'uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all'azione di cui all'art. 269 c.c.. Le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perchè l'interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194/1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396/2000, non può essere assimilato all'interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse (1).
(1) Conformi Cass., 18-11-1992 n. 12350; Cass., 15-3-2002 n. 3793.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Salvatore Di Palma - Presidente -
Dott. Maria Giovanna Sambito - Consigliere -
Dott. Antonio Valitutti - Consigliere -
Dott. Maria Acierno - Consigliere Rel. -
Dott. Antonio Pietro Lamorgese - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA N. 13880/2017
sul ricorso 29407/2015 proposto da:
B. G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassiodoro n. 1/a, presso l'avvocato Giuliano Scarselli, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato Francesca Brombin, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
B. D., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Bruno Buozzi n. 82, presso l'avvocato Antonella Iannotta, rappresentata e difesa dall'avvocato Carlo Ricchi, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1655/2015 della CORTE D'APPELLO di Firenze, depositata il 29 settembre 2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 marzo 2017 dal Cons. Dott. Maria Acierno;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Francesca Ceroni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato Giuliano Scarselli che si riporta;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato Ricchi Carlo che si riporta.
FATTO
B. D., ...omissis..., ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Siena B. G. per chiedere che ne fosse accertata e dichiarata giudizialmente la paternità naturale, asserendo di essere nata da una relazione che quest'ultimo aveva avuto con sua madre, M. L., nel ...omissis....
Il B. G., costituitosi in giudizio, ha affermato di non ricordare di aver avuto una relazione sessuale con M. L., conosciuta in occasione delle lezioni di matematica che ella gli impartiva, e comunque di non essere stato informato di nulla all'epoca della nascita della presunta figlia, ma di essere stato ricontattato dalla donna soltanto nel ...omissis... con una lettera contenente riferimenti a fatti avvenuti nel ...omissis..., poi nel ...omissis... con messaggi recapitati alla segreteria telefonica e infine nel ...omissis... da B. D. con una lettera in cui questa dichiarava di essere sua figlia e di avere bisogno di denaro.
Istruita la causa con le prove documentali (le lettere sopracitate), l'interrogatorio formale del convenuto e la testimonianza di A. A., cugina dell'attrice, il Tribunale ha disatteso l'istanza di ammissione di consulenza tecnica d'ufficio ed ha rigettato la domanda in quanto non ha rinvenuto alcun elemento, nemmeno di natura indiziaria, relativo al presunto rapporto di filiazione tra B. G. e B. D., non potendosi dare rilievo alle dichiarazioni della madre, chiamata in causa dal B.. La Corte d'appello di Firenze, investita dell'impugnazione proposta da B. D., ha invece disposto la consulenza tecnica d'ufficio genetica, cui l'appellato ha rifiutato di sottoporsi per ragioni di salute. Con sentenza del 4 settembre 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, la corte territoriale ha accolto la domanda di B. D. ed ha dichiarato la stessa figlia di B. G., disponendo le relative annotazioni a margine dell'atto di nascita.
In particolare la Corte territoriale ha rilevato, per quel che ancora interessa:
che l'ordinanza di ammissione della c.t.u. genetica non era viziata d'illegittimità in quanto essa trovava fondamento, da un lato, nell'esistenza di elementi di prova circa la sussistenza di una relazione tra lui e M. L. in epoca compatibile con il concepimento; dall'altro, nella peculiarità dell'oggetto dell'accertamento, che richiede l'ausilio di specifiche indagini tecniche da parte di un accertamento peritale in funzione c.d. percipiente;
che il diniego opposto dal B. di sottoporsi ad esame peritale risultava ingiustificato anche alla luce del suo quadro clinico, attesa l'assoluta non invasività dell'indagine, consistente in un semplice prelievo salivare dalla mucosa boccale;
che tale rifiuto ingiustificato, valutato congiuntamente all'incontestata frequentazione tra il B. e M. L. in epoca compatibile con il concepimento, integrava la prova della fondatezza della domanda di accertamento di paternità.
DIRITTO
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, accompagnato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ., B. G.. Resiste con controricorso, anch'esso accompagnato da memoria, B. D.. Nel ricorso viene preliminarmente eccepita l'illegittimità costituzionale dell'art. 269 cod. civ., per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali. Infatti, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della Legge n. 194/1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi dell'art. 30 del D.P.R. n. 396/2000, l'uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all'azione di cui all'art. 269 cod. civ.. L'eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza, in condivisione con quanto espresso sul punto dalle pronunce di questa Corte n. 12350 del 18 novembre 1992 e n. 3793 del 15 marzo 2002. Le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perchè l'interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della Legge n. 194/1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396/2000, non può essere assimilato all'interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.
Il ricorrente censura altresì la sentenza impugnata con quattro motivi, deducendo:
1) nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 118, 258, 260 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ. perchè la Corte d'appello ha disposto l'esame genetico sul B. non con ispezione corporale ex art. 118 cod. proc. civ., ma, illegittimamente, con consulenza tecnica d'ufficio, mancando di conseguenza di rispettare le garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta a ispezione, in particolare i presupposti dell'indispensabilità dell'accertamento e dell'assenza di un grave danno per la parte. Tuttavia, pur non applicando dell'art. 118, comma 1, cod. proc. civ. la sentenza applica illogicamente il secondo comma, utilizzando come argomento di prova il rifiuto di comparizione all'ispezione.
2) Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 118 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. perchè il secondo comma di detto articolo stabilisce che possono trarsi argomenti di prova dal rifiuto di consentire all'ispezione opposto dalla parte "senza giusto motivo". La sentenza impugnata, oltre a non definire la clausola generale costituita dal "giusto motivo", non ha dato alcun rilievo alle difficili condizioni di salute che impedivano al B. di sottoporsi all'esame, come attestato da due certificati medici. Dal combinato disposto dell'art. 30 Cost., comma 4 ("la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità") e art. 32 Cost. (che riconosce il diritto fondamentale alla salute) ben può argomentarsi che il rispetto della salute psico-fisica del presunto padre è un limite che integra il "giusto motivo" ex art. 118, comma 2, cod. proc. civ..
3) Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 196 e 356 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. perchè la Corte d'appello ha illegittimamente condiviso le conclusioni del c.t.u. sulla mancanza di un giusto motivo di rifiuto di sottoporsi all'esame biologico, malgrado il consulente stesso non abbia esaminato direttamente il ricorrente. Sarebbe stato necessario disporre una nuova c.t.u. per accertare se la sottoposizione del B. all'esame dovesse essere evitata per la sussistenza di un "grave danno" ex art. 118 cod. proc. civ., comma 1, o fosse giustificato un suo rifiuto.
4) Omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. in relazione al comportamento processuale leale e collaborativo del B., che in primo grado ha chiamato in causa M. L. e ha prodotto le lettere che gli erano state inviate. La Corte d'appello fonda la propria decisione unicamente sul rifiuto di sottoporsi all'esame biologico e sull'accertata frequentazione tra il B. G. e la B. D. in epoca compatibile con il concepimento, ma omette di considerare il fatto decisivo costituito dal comportamento del ricorrente.
Il primo motivo è infondato.
Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l'esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. E' necessario e sufficiente in tal caso che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perchè la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13 marzo 2009, n. 4792 del 26 febbraio 2013). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l'esistenza o l'inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sè suscettibile di rilevazione solo con l'ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29 maggio 2008). Al contrario, gli artt. 118, 258 e 260 cod. proc. civ., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all'ispezione corporale e sono pertanto estranei all'accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un'ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l'espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 9 aprile 2009).
Di conseguenza, priva di pregio è la censura di violazione di legge per aver fatto la sentenza impugnata applicazione dell'art. 118, comma 2, cod. proc. civ. che dispone che il giudice possa "desumere argomenti di prova" dal rifiuto ingiustificato di eseguire l'ordine di ispezione, pur senza aver applicato il comma 1, che disciplina le forme e le garanzie del subprocedimento istruttorio di ammissione e assunzione dell'ispezione giudiziale. In realtà il diniego opposto dal B. rispetto all'indagine genetica disposta dalla Corte d'appello è stato considerato, unitamente ad altri elementi, come contegno processuale valutabile dal giudice ai sensi dell'art. 116, comma 2, cod. proc. civ. alla stregua di argomento di prova (a pag. 7 della sentenza si legge infatti che "il comportamento difensivo della parte risulta suscettibile di valutazione ex art. 116 cod. proc. civ."). Con particolare riferimento alla materia de qua giurisprudenza consolidata, invero, ammette che il contegno processuale possa di per sè solo costituire la base di un ragionamento presuntivo e assurgere così a fondamento della decisione del giudice (ex multis, Cass. n. 9307 del 19 settembre 1997, n. 3976 del 19 marzo 2002, n. 18224 del 22 agosto 2006, n. 12971 del 24 luglio 2012).
Anche il secondo motivo è infondato.
Non è censurabile la sentenza impugnata per aver ritenuto ingiustificato il rifiuto del B. di sottoporsi all'esame genetico anche a fronte dei certificati medici attestanti il suo impedimento a sottoporsi ad accertamenti clinici ed ematologici. Del tutto correttamente la Corte territoriale ha condiviso, al riguardo, la valutazione del consulente tecnico d'ufficio che ha spiegato in modo esauriente che non di "accertamento clinico" o "esame ematologico" si trattava, ma di un semplice prelievo salivare eseguito mediante strofinamento di un tampone all'interno della bocca, rispetto a cui i suddetti certificati medici non segnalavano nessun tipo di specifica controindicazione. Pienamente condivisibile e del tutto adeguatamente argomentata l'esclusione del rilievo dei disturbi ansiosi-depressivi di cui il B. è affetto rispetto all'esame da svolgere, essendo tali disturbi legati all'esito complessivo del giudizio e non ad una specifica scansione processuale, come insindacabilmente accertato nella sentenza impugnata.
Il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta il mancato espletamento di un'ulteriore consulenza tecnica d'ufficio volta ad accertare ex ante la sussistenza del "grave danno" ex art. 118 cod. proc. civ., derivante dalla sottoposizione del B. all'esame genetico, è manifestamente infondato in quanto, come illustrato supra, non di ispezione corporale si tratta, ma di consulenza tecnica (artt. 191 cod. proc. civ. e segg.), per cui l'applicazione dell'art. 118 cod. proc. civ., non è in questione. A identico rilievo soggiace la doglianza circa il mancato espletamento di una consulenza tecnica volta a verificare ex post la legittimità del rifiuto di sottoporsi all'esame. A tacere del fatto che non risulta che l'odierno ricorrente abbia formulato nel giudizio di merito alcuna specifica istanza in tal senso (il che introduce un profilo d'inammissibilità), deve sottolinearsi che la c.t.u. è un mezzo istruttorio rimesso all'apprezzamento officioso del giudice di merito, esercizio di una facoltà discrezionale (ex multis, Cass. n. 6144 del 13 marzo 2009). Vero è che, come spiegato nella sentenza richiamata dal ricorrente (Cass. n. 10894 dell'11 maggio 2007), tale potere discrezionale è censurabile in sede di legittimità ove la motivazione della sentenza sia affetta da vizi logici e giuridici, ma non è evidentemente questo il caso, mancando a monte (come rilevato pure a p. 34 del controricorso e non contrastato dal ricorrente nella memoria depositata) una qualsivoglia istanza di integrazione o rinnovazione della c.t.u. su cui il giudice avrebbe dovuto esprimersi.
Il quarto ed ultimo motivo, con cui il ricorrente si duole dell'omesso esame del proprio comportamento processuale leale e collaborativo, è inammissibile perchè mira a censurare nel merito l'accertamento dei fatti posto dalla Corte d'appello a fondamento della propria decisione. E' pacifico, invero, che sia devoluta al giudice del merito l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, con l'unico limite dell'adeguata e congrua motivazione del criterio adottato (Cass. n. 9032 del 7 aprile 2017).
Nella specie, il ragionamento decisorio della sentenza impugnata è congruamente motivato e risulta privo di vizi logici e giuridici: rilievo fondamentale ha assunto l'ingiustificato rifiuto del B. di sottoporsi all'accertamento genetico, fatto dotato di così elevato valore indiziario da poter costituire esso solo la dimostrazione della fondatezza della domanda ex art. 269 cod. civ. (Cass. n. 6025 del 25 marzo 2015). Unitamente a ciò la Corte territoriale ha valutato la circostanza (incontestata) che il B. G. e la B. D. si fossero frequentati in epoca compatibile con il concepimento, nonchè la testimonianza di A. A., cugina dell'odierna controricorrente, la quale ha dichiarato essere noto in famiglia che la zia all'epoca avesse avuto una relazione con una persona molto più giovane di lei, quale poteva essere il B.. Peraltro, anche la condotta stragiudiziale dello stesso, consistente nell'aver ignorato le lettere inviategli da M. L. e D., è stata valorizzata, insindacabilmente, trattandosi di valutazione dei fatti, dal giudice di merito come ulteriore indizio del suo atteggiamento elusivo dell'accertamento dei fatti.
Per i rilievi che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002 ai fini del versamento da parte dei ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 marzo 2017.
 
IL PRESIDENTE
Salvatore Di Palma
IL CONSIGLIERE EST
Maria Acierno
 
Depositato in Cancelleria il 1° giugno 2017
 


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