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Direzione scientifica di M. Alessandra Sandulli e Andrea Scuderi
12/01/2016
RESPONSABILITÀ CIVILE / Responsabilità sanitaria

Responsabilità medica per nascita indesiderata: non esiste alcun diritto a non nascere se non sani!

E' errata la tesi del diritto a non nascere se non sani, ossia del rifiuto di una vita non degna di essere vissuta perché segnata dalla malattia per il bambino nato con una patologia grave. E' da escludersi, pertanto, che in caso di omessa diagnosi di malformazione fetale congenita e non provocata dal sanitario, quest'ultimo possa essere chiamato a rispondere civilmente del danno da vita handicappata reclamato dalla persona nata con malformazioni.

E' quanto emerge dalla fondamentale pronuncia della Suprema Corte, a Sezioni Unite, oggi in rassegna.
Chiamata a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto in materia di nascita c.d indesiderata sulla legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, persona ancora non era, le Sezioni Unite, richiamandosi a numerosi precedenti conformi, hanno ricordato che una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, e il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento.
In altri termini, è ammissibile l'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione.
Ad avviso del Supremo Collegio di legittimità, tuttavia, occorre procedere ad un esame approfondito della natura del diritto che con una tale azione si assume leso e il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Quanto al concetto di danno, la Corte rileva che esso è identificabile nella vita stessa e l'assenza di danno nella morte del bambino. E ciò conduce ad una contraddizione insuperabile: dal momento che l'assenza di danno è la non-vita, questa non può essere considerata un bene della vita, tanto meno dal punto di vista del nato, per il quale il bene leso diverrebbe l'omessa interruzione della sua stessa vita. Non si può quindi parlare di un diritto a non nascere, tale, occorrendo ripetere, è l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilità, commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: ché anzi, non è responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore).
La Cassazione, per completezza argomentativa, aggiunge che seppur non è punibile il tentato suicidio, costituisce, per contro, reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.): a riprova ulteriore che la vita - e non la sua negazione - è sempre stata il bene supremo protetto dall'ordinamento.
Il supposto interesse a non nascere, com'è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità).
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in terra di norme eccezionali.
Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole. La formula, concettualmente fluide ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente più restrittive nel tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività.
In definitiva, non esiste alcun diritto a non nascere se non sani e a sostegno di tale tesi la Corte utilizza anche l'argomento comparatistico, richiamando le sentenze che hanno negato, negli USA, in Germania e nel Regno Unito, il diritto al risarcimento del danno da "wrongful life", nonché l'evoluzione giurisprudenziale e normativa cui si è assistito in Francia in seguito al noto caso Perruche.

Adriana Costanzo
ALLEGATO 1 Cassazione Civile - Sez. Unite - Sentenza 22 Dicembre 2015, n. 25767
> Responsabilità - Civile - Responsabilità medica - Nascita c.d. indesiderata - Onere probatorio nell'accertamento del danno da nascita indesiderata - Riparto onere della prova e contenuto - Individuazione
> In tema di riparto dell'onere probatorio in caso di accertamento del danno da nascita indesiderata, l'oggetto della prova è un fatto complesso, composto da: la rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psico-fisica della donna, la scelta abortiva. La prova verte dunque anche su un fatto psichico: l'intenzione di abortire della donna. Questa non può essere oggetto di prova in senso stretto e può eventualmente essere provata tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa risalire all'esistenza di un fatto psichico. In altre parole, la donna deve provare, attraverso una serie di circostanze sintomatiche, la propria volontà abortiva in caso di gravi malformazioni del feto. Sul professionista ricade, invece, l'onere della prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all'aborto.
> Responsabilità - Civile - Responsabilità medica - Nascita c.d. indesiderata - Diritto a non nascere se non sani - Risarcimento del danno - Esclusione
> Il nato con disabilità per malattie congenite non provocate dal sanitario non è legittimato ad agire per il risarcimento del danno da "vita ingiusta", poiché l'ordinamento ignora il "diritto a non nascere se non sano".
Cassazione, Sezioni Unite, 22 dicembre 2015, n. 25767
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 15 maggio 1997 i sigg. ...omissis... e ...omissis... convenivano dinanzi al Tribunale di ...omissis... il prof. ...omissis... primario di ginecologia presso l'ospedale ...omissis... nonché la direzione generale dell'Azienda ...omissis... ed il dott. ...omissis..., primario del laboratorio delle analisi chimiche microbiologiche del predetto ospedale, esponendo
- che la signora ...omissis... aveva partorito in data ...omissis... la figlia ...omissis... risultata affetta da sindrome ...omissis...;
- che in precedenza, in data ...omissis... aveva eseguito esami ...omissis... a scopo di indagine diagnostica prenatale, proprio al fine di identificare tale eventuale patologia;
- che il primario, prof. ..omissis... inviava la paziente al parto, omettendo, colposamente, ulteriori approfondimenti, resi necessari dai valori non corretti risultanti dagli esami.
Costituitosi ritualmente, il prof. ...omissis... negava la propria responsabilità, assumendo che i risultati degli esami non erano tali da indurre al sospetto della sindrome ...omissis... nel feto e chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la compagnia A. s.p.a., presso la quale era assicurato nell'esercizio della professione.
Dopo il conforme provvedimento del giudice istruttore si costituivano l'Azienda ...omissis... il dr. ...omissis... nonché le A. s.p.a., che contestavano la domanda sia nell'an che nel quantum debeatur.
Dopo lo scambio di memorie ex artt. 183- 184 cod. proc. civile, la causa, senza ulteriore istruttoria, veniva decisa con sentenza 13 ottobre 2003, di rigetto della domanda, con compensazione delle spese.
Il successivo gravame era respinto dalla Corte d'appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008.
La carte territoriale motivava
- che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) per ricorrere all'interruzione della gravidanza;
- che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l'aborto costituiva reato;
- che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo onere della prova (art. 6 1.194/1978);
- che, sul punto, gli attori non avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; né era ammissibile supplire al difetto di prova mediante la richiesta consulenza tecnica d'ufficio;
- che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di riconoscimento nell'ordinamento giuridico; come pure l'ammissibilità del cd. aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre, una volta esclusa ogni responsabilità del medico nella causazione della malformazione del feto.
Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. ...omissis... e ...omissis... in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore ...omissis... proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008.
Deducevano
1) la violazione degli articoli 1176 e 2236 cod. civ. e dell'art. 6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel riversare sulla gestante l'onere della prova del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente dalle malformazioni del nascituro: laddove l'impedimento all'esercizio del diritto di interrompere la gravidanza era di per se sufficiente a integrare la responsabilità del medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento;
2) la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405 nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un'esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche.
Resistevano congiuntamente l'Azienda ...omissis... di ...omissis..., il dr. ...omissis..., nonché, con distinto controricorso, il prof. ...omissis....
I ricorrenti ed il prof. ...omissis... depositavano memoria illustrativa ex art. 378 cod. proc. civ..
La terza sezione civile, cui era stato assegnato il ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, rimetteva la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite.
In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della cd. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell'onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14488; Cass., sez. 3, 4 gennaio 2010 n. 13; Cass., sez. 3, 10 novembre 2010 n. 22837; Cass., sez. 3, 13 luglio 2011 n. 15386; cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico della parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez. 3, 2 ottobre 2012 n. 16754; Cass., sez. 3, 22 marzo 2013 n. 7269; Cass., sez. 3, 10 dicembre 2013 n. 27528; Cass., sez. 3, 30 maggio 2014 n. 12264).
In ordine al secondo motivo di ricorso, rilevava un contrasto ancora più marcato sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico e della struttura sanitaria: alla tesi negativa sostenuta da Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14488; Cass., sez. 3, 14 luglio 2006 n. 16123, Cass., sez. 3, 11 maggio 2009 n. 10741 faceva riscontro la contraria opinione che escludeva il requisito della soggettività giuridica del concepito e la sua legittimazione, dopo la nascita, a far valere la violazione del diritto all'autodeterminazione della madre, causa del proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se egli non fosse nato (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011 n. 9700; Cass., sez. 3 2 ottobre 2012 n. 16754).
Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all'udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell'onere della prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro.
Punto di partenza della relativa disamina è l'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.
Il diniego, in linee di principio, dell'interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e "a fortiori" in funzione eugenica, emerge, infatti, inequivoco già dall'art. 1, contenente l'enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l'aborto resta un delitto ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo e delle nascite").
In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della gravidanza (art. 6: "L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, pub essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna").
Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n. 20).
In questa cornice normative, la censura del ricorrente qui in scrutinio ripropone l'annoso problema del riparto dell'onere della prova dei predetti presupposti di legge in terra di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l'espressione wrongful life si indica, invece, la causa petendi dell'azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati - sembra - dalla Appellate Cort dell'Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l'attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo).
L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all'art. 6, imputabile a negligente carenza informative da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.
Occorre pera che l'interruzione sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loco nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna - giacché, senza il concorso di tali presupposti, l'aborto integrerebbe un reato; con la
conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge.
Oltre a ciò, dev'essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti.
Sotto questo profilo, il thema probandum a costituito da un fatto complesso; e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima.
In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dal quali sia perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell'intero fatto complesso.
Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato ove convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della fattispecie - e costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.
L'ovvio problema che ne scaturisce e che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e diretta; sicché non si può dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l'onere probatorio - senza dubbio gravoso, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto storico - può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare.
Il passo successivo consiste nell'applicare la concezione quantitativa o statistica della probabilità, intesa come frequenza di un evento in una serie di possibilità date: espressa dall'ormai consolidato parametro del "più probabile, che no".
Nel caso in esame, la Corte d'appello di Firenze, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che l'onere della prova di tutti presupposti della fattispecie di cui all'art. 6 ricadesse sulla gestante; inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva: ciò che implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all'epoca, che avrebbero concorso a determinare l'incoercibile decisione di interrompere, o no, la gravidanza.
Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova positiva, neppure la consulenza tecnica d'ufficio fosse ammissibile; e la domanda dovesse essere quindi respinta in limine.
Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art. 2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) - con un riparto che appare del resto rispettoso del canone della vicinanza della prova - si palesa manchevole, invece, omessa valutazione - che sembra adombrare un'esclusione aprioristica - della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva.
E bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum: la cui consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte dall'onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non contestazione del fatto, che pure comporta la relevatio ab onere probandi; pur se di quest'ultima sia dubbia ('irreversibilità: art. 345, secondo comma, cod. proc. civ.). Nulla del genere a infatti riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in alcun modo la madre dall'onere della prova della malattia grave, Fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all'interruzione della gravidanza, nonché della sua conforme volontà di ricorrervi.
Ci si riferisce, invece, alla praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all'art. 2729 cod. civile, che consiste nell'inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l'id quod plerumque accidit -che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d'ufficio, se non rientrino nella sfera del notorio (art. 115, secondo comma, cod. proc. civ.) - ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche - emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d'ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all'opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc..
In questa direzione il tema d'indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all'aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale.
E' da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad un'elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino in presunzione di ricorso all'aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto, mal dissimulerebbe l'inammissibile prefigurazione giudiziale di una presunzione juris tantum.
In conclusione, la statuizione della Corte d'appello di Firenze si è arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del riparto dell'onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.
La sentenza dev'essere quindi cassata sul punto; restando impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio del diritto di scelta, per eventuale negligenza del medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno in re ipsa - quale espressamente prospettato dai ricorrenti - occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ex art. 6 lett. b) L. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d'ufficio.
Esula, altresì, dal thema decidendum di questa fase di legittimità il problema dell'identificazione dell'eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (artt. 1223, 2056 cod. civ.): se limitato allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza - restando cioè interno alla fattispecie di cui all'art. 6, in considerazione della natura eccezionale della norma - o se sia esteso a tutti danni conseguenza riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana.
Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome ...omissis... al risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa.
E' questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di riflessioni financo filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata, in favore o contro la presunzione juris et de jure di preferibilità della vita, per quanto malata (problematica, che investe anche temi diversi, come quello della morte pietosa).
Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente giuspolitico - che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al giudice l'interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite - non è seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera, abbiano influito, ben oltre l'ordinario, considerazioni antropologiche e soprattutto di equità, intesa come ragionevole attenuazione e modificazione apportata alla legge in virtù di speciali circostanze.
Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all'art. 1 cod. civ. ("La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme ad un pensiero giuridico plurisecolare.
Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito, subordinati all'evento della nascita (ibidem, secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non può reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora esistente (artt. 254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.).
Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto adespota, la cui configurazione riuscirebbe, "prima facie" in contrasto con il principio generale sopra richiamato.
L'argomento, apparentemente preclusivo in limine, non si palesa, peraltro, insuperabile; e di fatto a stato superato da quella giurisprudenza di legittimità che ha opposto che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventa attuale ed azionabile dopo la nascita del soggetto.
E' vero, in tesi generale, che l'attribuzione di soggettività giuridica a appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa, talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all'interno dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge, espressive di valori dell'ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.): eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli interessi (Interessenjurisprudenz), di ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro, storicamente ancorate ad una concezione positivistica del diritto.
Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto di diritto, dotato di capacità giuridica - contro il chiaro dettato dell'art. 1 cod. civ. - per confermare l'astratta legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, convincimento tradizionale, da tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto.
Questa Corte ha già da tempo negato, pur se in ipotesi di danno provocato al feto durante il parto, che l'esclusione del diritto al risarcimento possa affermarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita: definendo erronea la concezione che, a tal fine, ritiene necessaria la sussistenza di un rapporto intersoggettivo ab origine tra danneggiante e danneggiato. Ed ha concluso che, una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento (Cass., sez. 3, 22 novembre 1993, n. 11503). C
Tenuto conto del naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si pub pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività - che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi - bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n. 27; Cass., sez. 3, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).
Tale principio informa espressamente diverse norme dell'ordinamento. Cosi, l'art.1, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera tra i soggetti tutelati anche il concepito ("Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana 8. consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito"). Analogo concetto è riflesso nell'art. 1 della stessa legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita umana anteriormente alla nascita ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n. 405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l'esigenza di proteggere la salute del concepito (art. 1: "Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi...: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento"). Infine, nell'ambito della stessa normativa codicistica, l'art. 254 prevede il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato.
Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell'effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute (cfr. art. 41 cod. pen.).
Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in ipotesi, l'autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, tramite una condotta omissiva che si ponga in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata; e la soluzione verrebbe, in tal modo, ad essere identica alla diversa ipotesi della responsabilità del medico verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità di un farmaco somministrato per stimolare l'attività riproduttiva (Cass 11 maggio 2009 n 10741), o di una malattia della gestante suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.
Se dunque l'astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell'art. 1 cod. civile, occorre scrutinare a Tondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed H rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Sotto il primo profilo, in un approccio metodologico volto a mettere tra parentesi tutto del che concretamente non è indispensabile, per cogliere l'essenza di ciò che si indaga, si deve partire dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all'art. 1223 cod. civile e riassumibile, con espressione empirica, nell'avere di meno, a seguito dell'illecito. In siffatta ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe pertanto legato alla stessa vita del bambino; e l'assenza di danno alla sua morte
Ed è qui che la tesi ammissiva, in subiecta materia, incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l'illecito, è la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non può essere un bene della vita; per la contraddizion che noi consente.
Tanta meno può esserlo, per il nato, retrospettivamente, l'omessa distruzione della propria vita (in fieri)., che è il bene per eccellenza, al vertice della scala assiologica dell'ordinamento.
Anche considerando norma primaria l'art. 2043 cod. civile,infatti, viene meno, in radice, il concetto stesso di danno ingiusto; oltre che reciso il nesso eziologico, sia pure inteso in base ai principi della causalità giuridica e nella sua ampiezza più estesa, propria della teoria della condicio sine qua non (generalmente rifiutata, peraltro, in materia di illecito civile).
Non si può dunque parlare di un diritto a non nascere; tale, occorrendo ripetere, è l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilità, commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: ché anzi, non è responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore). Si aggiunga, per completezza argomentativa, che seppur non è punibile il tentato suicidio, costituisce, per contro, reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.): a riprova ulteriore che la vita - e non la sua negazione - è sempre stata il bene supremo protetto dall'ordinamento.
Del resto, il presupposto stesso del diritto è la vita del soggetto; e la sua centralità affermata fin dal diritto romano ("Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit... ": D. 1, 5, 2., Hermogenianus, libro primo iuris epitomarum ).
Il supposto interesse a non nascere, com'è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità).
L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in terra di norme eccezionali.
Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011, n. 9700). La formula, concettualmente fluide ed inafferrabile, pretende di estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante, in presenza di rigorose condizioni - progressivamente pia restrittive nel tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività.
In senso contrario, qualche voce in dottrina, non senza echi giurisprudenziali, adduce l'apparente antinomia tra la progressiva estensione del credito risarcitorio in favore del padre (Cass., sez. 3, 10 maggio 2002 n. 6735) e dei germani (Cass., sez. 3, 2 ottobre 2012 n. 16754) ed il perdurante diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie prese in considerazione dalla norma: argomento, suggestivo ed impressionistico, ma di nessun pregio giuridico, restando ad un livello di constatazione empirica, senza adeguato apprezzamento delle diverse premesse in diritto.
A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi - se, cioè, sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall'onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'art. 6 L. cit. - e soggettivi - in quanto non onerati dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva - valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la quanta della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato.
In una decisione che investe diritti fondamentali della persona umana, diventa al riguardo rilevante anche l'analisi comparatistica mediante richiamo di precedenti attinti dall'esperienza maturata in ordinamenti stranieri, culturalmente vicini ed informati al più assoluto rispetto del diritti della persona.
La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful life si è formata innanzitutto presso le corti statunitensi.
Il primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la pericolosità della rosolia della gestante - sotto il profilo che l'aborto era, all'epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22 Gennaio 1973 Roe - nome di fantasia, a tutela della privacy - v. Wade, con una maggioranza di sette giudici a due), sia quella del figlio nato malato: proprio con l'argomento, destinato a diventare tralatizio, che era improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita.
Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983).
Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato (BGH, 18 gennaio 1983); cosi come in Inghilterra (London Court of Appeal 19 febbraio 1982, Sachen McKaà v. Essex Health Authorità.
Alla luce di questi cenni sommari, si può enucleare una tendenza generale a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel torso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e dunque, nella sede appropriate alla tutela di soggetti diversamente abili e bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da quella in esame.
Ed al riguardo nulla è più significativo dell'evoluzione normativa seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemblée pléniere, 17 novembre 2000, sul cd. affaire Perruche che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformità dalle conclusioni del P.G., sull'impossibilità di ravvisare un danno nella stessa vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: "Le dommage c'est la vie et l'absence de dommage c'est la mort: La mort devient ainsi une valeur préférable a la vie"). Con la «Loi relative aux droits de malades et a la qualité du sàstème de santé » 4 marzo 2002 n. 2002-303 (cd. Loi Kouchner, dal nome del ministro della salute proponente Bernard Kouchner), si sono infatti perentoriamente riaffermati i canoni i tradizionali - con il crisma del primato della legge - prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa medica può ottenerne il risarcimento quando l'atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo (Art. 1 del titolo «Solidarité envers les personnes handicapées»: «Nul ne peut se prévaloir d'un prejudice du seul fait de sa naissance. La personne née avec un handicap do à une faute médicale peut obtenir la reparation de son prejudice lorsque l'acte fautif a provoqué directement le handicap ou pa aggravé, ou n'a pas permis de prendre les mesures susceptibles de Patténuer»). Legge, la cui espressa retroattività - censurata dapprima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo con due arresti assunti all'unanimità dai 17 giudici della Grande Chambre (sent. 6 ottobre 2005 in cause Maurice c. Francia e Draon c. Francia) e poi dichiarata illegittima, in parte qua (Conseil constitutionel 11 giugno 2010), appare, all'evidenza, significativa della volontà del legislatore di risanare la cesura giurisprudenziale tra un indirizzo tradizionale, fondato su pilastri dogmatici e concettuali di plurisecolare vigenza, e la dirompente deviazione (definita, da parte della dottrina, perfino come arrêt de provocation ) segnata dalla sentenza della Suprema Corte, ponendo a carico della solidarietà nazionale l'assistenza dei nati handicappati.
In quest'ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che ancora la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui sarebbe beneficiario 11 nascituro: figura primamente elaborate dalla dottrina tedesca (Schutzpflichte), che riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto con la controparte contrattuale, una tutela più, intensa, di natura contrattuale (Vertraege mit Schutzwirkung fuer Dritte), che non quella propria della generalità dei terzi, che possono valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scoria di tale ricostruzione concettuale, si sostiene che se il contratto tra la madre ed il medico ha effetti protettivi verso i terzi (Cass., sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14488, che tuttavia nega il diritto del figlio al risarcimento), non sarebbe coerente escluderne il bambino: facile inferenza che, se vale a giustificare la titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte del nato affetto da anomalie cagionate direttamene dal sanitario, non supera, ancora una volta, l'ostacolo dell'inesistenza di un danno-conseguenza per effetto della mancata interruzione della gravidanza.
Né può essere sottaciuto, da ultimo, il dubbio che l'affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada ad un'analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall'art. 6 L. 194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire. E per quanto si voglia valorizzare un metodo antiformalista nella configurazione dell'illecito, valorizzando i principi di solidarietà ex artt. 2 e 3 della Costituzione, occorre pur sempre evitare straripamenti giudiziari influenzati dal fascino, talvolta insidioso, del metodo casistico (case law system), nell'ambito di un sistema aperto, quale configurato nella norma generale dell'art. 2043 cod. civ. (con l'espressione introduttiva: "qualunque fatto"...) in cui non si possono operare, a priori discriminazioni tra fatti dannosi che conducono al risarcimento e fatti dannosi che lasciano le perdite a carico della vittima.
Il contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un'indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l'assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale: in particolare, equiparando quoad effectum l'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all'errore medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato: conclusione, che non può essere condivisa, ad onta delle fitte volute concettualistiche che la sorreggono, stante la profonda eterogeneità delle situazioni in raffronto e la sostanziale diversità dell'apporto causale nei due casi.
Non senza soppesare altresì il rischio di una reificazione dell'uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell'integrità psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione dottrinaria del cd. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es., il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilità dell'associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente all'approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno - sul presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano - è pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale federale tedesca (BVerfGE 88, 203).
Per superare gli ostacoli frapposti all'affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano - ignoto al vigente ordinamento - i ricorrenti prospettano, altresì, nell'ambito del secondo motivo, una concorrente ragione di danno da valutare sotto il profilo dell'inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo.
Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale allegazione non v'è traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere, in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia, essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni.
Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd. diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima obiezione dell'incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con Tunica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell' interruzione della gravidanza.
Si deve dunque ritenere che l'argomentazione, se vale a confutare la tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità di un danno senza soggetto non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd. diritto adespota), si palesa del tutto inidonea, per control a sormontare l'impossibilità di stabilire un nesso causale tra quest'ultima e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita. Oltre al fatto di postulare un'irruzione del diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una visione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti.
Il ricorso dev'essere dunque accolto limitatamente al primo motivo con rinvio alla corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, in relazione alla censura accolta, nonché per le spese della presente fase di legittimità.
P. Q. M.
- Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;
- Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità.
Roma, 22 Settembre 2015
 
Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2015
IL FUNZIONARIO GIUDIZIARIO
Paola Francesca Campoli


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